Ma che cos’è un laboratorio di comunità? E’ un gruppo
informale di cittadini che si incontrano periodicamente. Non sono però gruppi
di formazione, psicoterapia o auto mutuo aiuto, perché il loro baricentro è
verso l’esterno, rivolto alla costruzione di progetti e iniziative per la
propria città. D’altra parte si distinguono dai gruppi di progettazione, perché
tengono aperte finestre riflessive, affinché le persone possano vedere ciò che
stanno facendo e costruirne insieme il senso. I laboratori nascono da alcune
attività più semplici che fanno da attivatrici: corsi su tematiche educative
organizzate per i genitori a scuola, ad esempio, oppure focus group con persone
che hanno una buona conoscenza della comunità in cui vivono.
Da lì, creando un clima di fiducia e buone relazioni tra i partecipanti, si tenta di passare alla costruzione di un laboratorio di comunità vero e proprio. L’ipotesi è che ciascun gruppo, che ha come primo obiettivo quello di generare legami positivi tra i partecipanti, possa poi generare una rinnovata cittadinanza attiva, disponibile a impegnarsi per creare “servizi” gratuiti, auto-organizzati, leggeri e sostenibili, a disposizione di tutti. Una delle diverse strade per innovare il welfare, dal basso.
Ed è proprio qui che ora siamo arrivati col nostro lavoro: i tredici
laboratori marciano ormai da più di due anni, le piccole reti locali di aiuto e
di servizio sono state generate e si è sentita l’esigenza di cominciare a
cucire una rete più estesa, in grado di connettere le esperienze locali in una
realtà di territorio distrettuale. Da lì, creando un clima di fiducia e buone relazioni tra i partecipanti, si tenta di passare alla costruzione di un laboratorio di comunità vero e proprio. L’ipotesi è che ciascun gruppo, che ha come primo obiettivo quello di generare legami positivi tra i partecipanti, possa poi generare una rinnovata cittadinanza attiva, disponibile a impegnarsi per creare “servizi” gratuiti, auto-organizzati, leggeri e sostenibili, a disposizione di tutti. Una delle diverse strade per innovare il welfare, dal basso.
L’osteria serve proprio a questo; prima i partecipanti a un laboratorio si siedono attorno allo stesso tavolo, poi sono chiamati a spiegare agli altri cosa fanno e di quali temi si occupano: spazi gioco per bambini, tempi per le famiglie, corsi di lingua, co-working e così via. Infine, ci si mischia, scambiandosi i posti per formare gruppi di rielaborazione delle esperienze; attraverso l’uso di un mazzo di carte, ci si pongono domande generatrici di uno scambio tra i presenti: sei stato in grado di vedere e raccogliere qualcosa di inaspettato? Qual è la cosa più bella che è successa? Da quali errori hai imparato? Quali nuove competenze ti porti a casa?
Nasce così un bel confronto tra le persone, la gran parte
delle quali non appartiene a una associazione organizzata e non ha alle spalle
esperienze di aggregazione.
Anche oggi emerge un dato che mi colpisce sempre quando prendono la parola i protagonisti dei laboratori di comunità, che nel nostro caso sono prevalentemente donne. La dichiarazione che il laboratorio di comunità è una specie di isola felice, dove respirare insieme ad altre donne; un’alternativa alle dinamiche e ai tempi della casa, vissuta molto spesso come un peso, una fatica. La casa – e quindi anche i rapporti familiari? – emerge come una specie di pentola a pressione che non fa star bene le persone, che nega le loro energie migliori. E i laboratori diventano così la valvola di sicurezza attraverso cui far uscire il proprio calore e disperderlo nell’aria.
Naturalmente non per tutti è così, ma mi impressiona quanto questo tema sia ricorrente nelle riflessioni.
Chissà che non possa essere proprio questa frustrazione la benzina per un nuovo – e diverso – ritorno del pubblico.
Se la casa ci va stretta, forse la piazza può tornare a
essere una cosa viva. Anche oggi emerge un dato che mi colpisce sempre quando prendono la parola i protagonisti dei laboratori di comunità, che nel nostro caso sono prevalentemente donne. La dichiarazione che il laboratorio di comunità è una specie di isola felice, dove respirare insieme ad altre donne; un’alternativa alle dinamiche e ai tempi della casa, vissuta molto spesso come un peso, una fatica. La casa – e quindi anche i rapporti familiari? – emerge come una specie di pentola a pressione che non fa star bene le persone, che nega le loro energie migliori. E i laboratori diventano così la valvola di sicurezza attraverso cui far uscire il proprio calore e disperderlo nell’aria.
Naturalmente non per tutti è così, ma mi impressiona quanto questo tema sia ricorrente nelle riflessioni.
Chissà che non possa essere proprio questa frustrazione la benzina per un nuovo – e diverso – ritorno del pubblico.
Ridiventare Agorà.
Oliviero Motta
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